Un uomo è solo. Prigioniero e ferito. Senza evidenti vie d’uscita. Stretto in un buio cunicolo che come un labirinto sembra non avere fine, ma nasconde a ogni angolo e ad ogni snodo delle trappole. Non sa com’è arrivato lì né perché. Tutt’intorno corpi smembrati, ciò che resta di chi lo ha preceduto.
Mai visto niente di più claustrofobico e faticoso, cinema che mette a dura prova tutti i sensi, c'è quasi una sensazione tattile di sofferenza e paura mentre la unghie si aggrappano ai muri. Interamente girato in digitale, Haze (il Muro) è un incubo (reale?) di sangue e cemento, in cui Tsukamoto si diverte a tramortire lo spettatore con i colpi della sua regia umida e sporca, incollandosi a quest'uomo, facendoci strisciare con lui in compagnia delle sue allucinazioni e in cerca di una riposta che troverà forse nel visionario finale, lasciato volutamente aperto a varie interpretazioni.
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