Tekkonkinkreet significa cemento armato ed è tratto da un manga, diretto da un americano trapiantato in giappone. Un’opera molto particolare, che immagina scenari di desolazione alla periferia di una grande megalopoli giapponese, Treasure Town, in cui sono protagonisti due bambini orfani abbandonati a un miserevole destino. Kuro (Nero) e Shiro (Bianco) sono lo Yin e Yang che sorreggono quest'opera fatta di equilibri sottilissimi tra il buio e la luce, pace e devastazione, elementi inseparabili nell'animo di ogni individuo. Visivamente impagabile con una grafica basata sul contrasto: un tratto infantile e grezzo usato per i personaggi ed invece la cura maniacale dei fondali a rendere la "città tesoro" un elemento pulsante e vivo.
Ormai il computer ha spazzato via quell'oggetto romatico e in un certo senso magico che era la macchina da scrivere, relegata ormai a soprammobile vintage di dubbio gusto. Per fortuna c'è chi come Jeremy Mayer ne fa un uso migliore.
La troupe di un’emittente televisiva locale di Barcellona per il programma "mentre voi dormite" si mette una notte al seguito dei vigili del fuoco per carpirne qualsiasi stilla di azione e di brivido durante il loro operato. La prima chiamata è per un soccorso in una palazzina: si sono udite delle grida provenire dall'appartamento di un' anziana signora...
[REC] non inventa nulla nel suo genere ma nell'ormai sterile panorama Horror ha un pregio fondamentale e cioè quello di fare paura, ma paura davvero. L'incubo di Balaguerò girato interamente con camera a mano come il recente Cloverfield o The Blair Witch Project è avvolto in un'aurea di costante tensione, impreziosito da riuscitissimi effetti sonori e da un intelligente uso della luce, oltre ad alcune buone idee che in un crescendo claustrofobico porteranno all'agghiacciante finale. Se il film sulla strega era costruito sul "non vedo" e sul "lasciato immaginare" qui si vede tutto, il male ci guarda nell'obiettivo e non possiamo far altro che assistere senza via di fuga all'orrore che si consuma sotto i nostri occhi. Sfido chiunque a rimanere impassibile agli ultimi 10 minuti di pellicola.
Da evitare se vivete in una palazzina con scale e attici disabitati...
Mi trovo per la mani questo lavoretto di tale Dallas Green, 12 ballate per chitarra impreziosite qua e là da mandolino, armonica, pedal steel, un pianoforte appena accarezzato e qualche spruzzata di batteria. Un album delicato e sommesso, davvero piacevole.
Una rilettura del western come lo conosciamo, portato ad un livello superiore quasi sul filo di un noir crepuscolare. Fin dal bellissimo ed esaustivo titolo è chiaro che Andrew Dominick voglia concentrarsi quasi esclusivamente sulla profondità psicologica dei personaggi più che sulla trama, imbastendo una maestoso duello di sguardi, paure, tradimenti, ambiguità e palpabile tensione emotiva. Introspezione lucida e profonda nell'animo di Robert Ford (la rivelazione Casey Affleck) che da ammiratore di Jesse James (un grandissimo Brad Pitt) ne diverrà carnefice.
E' la creazione del mito, più per mano dello stesso Jesse, consapevole della fine di un'epoca, che "lasciandosi" uccidere otterrà il lasciapassare per l'eternità del ricordo. Immortalità che a Robert Ford resterà invece sempre preclusa, destinato a rimanere una perfetta nullità, vittima predestinata del mito di Jesse James.
La fotografia maestosa e la delicata colonna sonora firmata da Nick Cave completano quest'opera bellissima che va ad aggiungersi a questa straordinaria annata cinematografica.